«I giochi da tavolo mettono alla prova, più degli altri, le superiori attitudini dell’intelletto riflessivo» Edgar Allan Poe ne “I delitti della rue Morgue” del 1845.
È proprio vero; tutti noi dovremmo trovare uno spazio interiore dove abbandonare le proprie energie e rilassarci in compagnia di un bel gruppo di amici. Sì, perché giocare è sinonimo di condivisione, di convivialità e di aggregazione.
Basti pensare all’Ottocento con l’affermazione della borghesia: i giochi di società erano spazi vitali per la comunità, un modo per conoscere e mettere alla prova le proprie potenzialità cognitive, oltre ad essere un fenomeno di moda e metafora della “nuova vita” di un ceto emergente.
Il “boom” lo abbiamo solo nel Novecento, dopo la Seconda Guerra Mondiale, con la diffusione dei giochi da tavola, diventati un fenomeno di massa, una tradizione popolare dove il divertimento regna sovrano.
Si gioca perché ci svaghiamo, i soldi non sono contemplati: si pensi a Cluedo, Scarabeo, Taboo, Trivial Pursuit dove dobbiamo misurare le nostre abilità intellettuali, allenare la memoria e i riflessi ad essere sempre ricettivi.
É vero, non dobbiamo dimenticarci della Fortuna, che gioca il 50% della partita.
“Fortunato nel gioco, sfigato in amore”. Sarà solo un detto? Non credo.
Certo è che, a differenza dei giochi in scatola dove la fortuna gioca un ruolo di coprotagonista, nei giochi d’azzardo è la protagonista indiscussa: si pensa di riuscire a governarla, ad adottare diverse strategie per metterla in disparte, ma con scarsi successi, almeno nella maggior parte dei casi.
Però nei giochi d’azzardo e nei videogame c’è sempre una ricompensa immediata: con un semplice tocco, che sia un clic sulla tastiera del pc o un tab sul touch display, ogni giocatore è soggetto a continui stimoli, ad attimi che non lasciano spazio al pensiero e alla volontà di decisione.
I giochi da tavolo sono società, etica e rispetto: è importante la fisicità, lo scambio di impulsi fisici e di complicità tra i giocatori, il tocco, il rapporto tattile con gli oggetti con cui si gioca, e soprattutto, il saper ascoltare gli altri.
Come avrebbero aggiunto i tre moschettieri, “tutti per uno, uno per tutti”.
E noi non possiamo non condividere il loro pensiero.